Achille Bonito Oliva,
"Teatrini dell'Ibrida Immagine",
Catalogo della mostra
alla Galleria di Ida Benucci,
Roma 2006-2007. 

L’arte contemporanea é soprattutto l’espressione di un’ansia sconfinante e di un desiderio di scambio transnazionale, assimilazione di codici altrui che arrivano fino alla cleptomania di stili extra-comunitari, assunzione per esempio dell’arte africana da parte del cubismo, del bricolage da parte del dadaismo e dell’arte popolare da parte dell’astrattismo che teorizza l’opera totale.
Modernità e postmodernità dunque risultano essere le convergenze parallele di uno strabismo culturale ricco di esiti fino alla possibilità di sconfinare oltre lo specifico da parte delle avanguardie storiche e delle neo-avanguardie che hanno assunto a stabile strategia il metodo della interdisciplinarietà e dell’ibridazione.
Maria Cristina Crespo ha fondato su questo atteggiamento il suo metodo creativo per realizzare un vero e proprio teatro iconografico in cui personaggi e interpreti sono frutto di una citazione e rinvio alla letteratura, all’arte figurativa, alla filosofia, alla religione, alla affabulazione popolare, tutte attraversate da una fantasia che arriva all’uso virtuale della storia passata.

Nelle opere realizzate nell’atelier di Gibellina, così come in tutti i suoi lavori, la Crespo utilizza materiali disparati per realizzare teatrini dello stupore grottesco, capaci di portare lo sguardo dello spettatore dentro le prospettive di uno spazio miniaturizzato, fantasioso e labirintico. L’opera dell’artista romana nasce dalla sedimentazione di una sensibilità che si articola attraverso un’attenzione trascorrente dall’ottica innocentemente creaturale a quella consapevole della maturità.
L’ibridazione é il risultato di una storia culturale alle spalle ma anche di una opzione personale, lo sconfinamento oltre la cornice di ogni specifico e l’approdo ad uno spazio franco e totale dove i generi si incontrano e dialogano tra loro. Non c’è purismo nell’opera della Crespo, non pratica laboratori formali, piuttosto cerca l’intensità epifanica di un’ immagine che è sempre frutto di un incontro.
Generi e linguaggi parlano tra loro secondo i dettami di un senso di onnipotenza che solo l’infanzia e l’arte posseggono. L’afflato poetico della Crespo è romantico per capacità di contaminazione tra cultura alta e bassa, affabulazione nordica e clima mediterraneo, grottesco e sublime.
Al campo del sublime appartengono sempre i titoli , riferimento ad una lontananza storica e culturale vagheggiata ed arpionata dal desiderio. Il desiderio si trasforma in citazione, che rovescia nel presente dettami iconografici e ritagli formali.
Il sublime per abitare il presente deve assumere necessariamente il tono del grottesco, attualizzazione di un passato altrimenti non passibile di fedele citazione. Struggente è l’infedeltà linguistica della Crespo che sembra filtrare attraverso l’ottica soggettiva l’oggettività di molte storie culturali.

Forte è lo sforzo del soggetto, dell’Io artefice di un’opera che deve contenere regressione e veloce recupero del presente. Per questo l’opera della Crespo non è mai nostalgica, anche se a volte può sembrarlo; il sigillo del grottesco segue tutta la sua produzione come un ricordo trasferito nell’attualità mediante l’assunzione di un costante tono affabulatorio.
La felicità della fabulazione è temperata dalla lucida consapevolezza adulta dell’artista che bagna ogni composita iconografia nella temperatura distorcente di uno stile quasi nordico e sicuramente espressivo.
Ciascuna composizione sembra assumere la frontalità del teatrino popolare, un teatro dei pupi capace di tradurre il sublime in delicate marionette del presente.
Il senso del gioco muove dunque il processo creativo della Crespo che non vuole infantilizzare la cultura, piuttosto modellarla in una misura del presente, nella direzione tascabile di una memoria soggettiva.
I più svariati materiali e oggetti sono addensati e condensati, assieme ai personaggi modellati in stucco, in fil di ferro e nylon intrecciato alla maniera delle antiche mummie egizie, in paesaggi in rilievo, resi con tecnica simile al cartonnage egizio, in box di legno. Boîte en valise di una memoria che non dimentica naturalmente l’ironia dell’arte contemporanea, la stessa che corre nella dimensione trasportabile del Dadaismo duchampiano, del surrealismo di Ernst e Dalì, fino alle scatole di Cornell.
Qui dentro si scatena per implosione il processo creativo che aggrega mondi culturali lontani, iconografie differenti e citazioni di generi disparati tra loro. Associazione e condensazione reggono la polluzione fantastica della Crespo che sembra voler riprodurre nella piccola dimensione la misura densa e pure feroce della fantasia infantile.

L’arte però è sempre frutto di una tecnica e dunque anche in questo caso di una elaborazione linguistica, applicazione adulta di un procedimento formativo per niente istintuale e selvaggio. E’ necessario l’ordine quando la casa si fa piccola, l’abitacolo è circoscritto in una architettura quasi tascabile.
L’ordine adulto della forma prende necessariamente il sopravvento per poter approdare all’atto formativo. Tale atto è il risultato di un intenso lavoro tecnico, intreccio tra manualità pittorica ed oggettuale, manipolazione di figure non soltanto dipinte ma realizzate tridimensionalmente sul piccolo palcoscenico dell’opera.
Le figure hanno la dignità di presenze vestite di veri e propri abiti, cuciti e applicati come in un rituale sacro, pettinate acconciate e pronte ad una rappresentazione ormai incancellabile. Portano su di sè il decoro dell’abbigliamento, gli abiti di una festa particolare, quella del colloquio interno tra loro e quella della visibilità prodotta all’esterno nella direzione dello spettatore.
Da qui si arguisce la destinazione inevitabilmente sociale dell’opera, aperta all’incontro col pubblico e pronta ad intercettarne attenzione e contemplazione.
Profonda è la scena prodotta dalla Crespo, costruita secondo i canoni stravolti di una profondità prospettica contratta, che accoglie lo spazio del racconto come un alveo e un deposito protettivo.

In qualche modo tale profondità sembra proteggere l’immagine nella sua irruzione nel presente e fungere naturalmente da elemento di riconoscimento della storia, frutto di una coscienza che intende opporre la propria costruzione alla bidimensionale spettacolarità del nostro presente. Si vuole creare una sintonia tra una sorta di disagio nello spettatore, disabituato a sprofondare nella scena, fertile provocazione prodotta dall’opera, ed il grottesco in essa sprigionato. Il grottesco qui non è un semplice stile, piuttosto il frutto di una riflessione dell’artista consapevole dell’epoca in cui viviamo, attraversata dalla perdita dei modelli di bellezza e di quelli del vivere quotidiano.

Essere moderni significa anche essere conflittuali. La Crespo sviluppa una sana conflittualità verso l’esterno mediante la costruzione di un linguaggio abitato da figure che ricordano tutto, anche il proprio spiazzamento in un presente teoricamente inospitale. Così l’artista crea una sua ospitalità alle figure, le protegge attraverso la misura della dimensione e la cornice del box.
Il campo così delimitato dell’immagine diventa una sorta di buco nero entro cui lo spettatore sprofonda la propria disattenzione per trovarsi allegramente atterrito di fronte alla miniaturizzazione della storia, diventata favola o dramma visivamente tascabile. Ecco allora scaturire una sana tensione che si sviluppa dall’iconografia dell’opera e si propaga a cerchi concentrici verso l’esterno come l’epicentro di un terremoto che devasta salutarmente ogni codice spettacolare.
Il suggerimento nicciano riguardante la necessità di distruggere per poter poi successivamente meglio costruire è qui realizzato; prima la decostruzione e poi la strutturazione di nuovi universi iconografici. Il ricchissimo universo iconografico della Crespo è frutto di un profondo meticciato linguistico e disciplinare, ricco di forme e materiali fino ad un voluto ingorgo dello spazio che rasenta l’horror vacui del barocco.
Accoglie dentro di sé positivamente l’incoerenza di poetiche formalmente contrapposte, la vitalità mediterranea del Barocco e la spiritualità quaresimale della letteratura nordica, il Quattrocento senese elegante e colorato di Neroccio e del Sassetta e il Seicento inquietante di Domenico Fetti, o del polacco Bartolomeo Strobel, il Settecento sensuale di Fragonard e l’atmosfera da santino degli spiritualisti lionesi dell’Ottocento, il romanticismo delle vedute nitide di Friedrich e il Novecento disfatto della Scuola Romana.
Una simile galleria di citazioni viene comunque inchiavardata dentro la cultura specificamente postmoderna degli ultimi decenni del nostro secolo condensati, basti pensare alla Transavanguardia, nel nomadismo culturale ed eclettismo stilistico.

L’ibridazione iconografica della Crespo trova il suo approdo definitivo nella titolazione delle opere, l’intreccio tra il loro interno grottesco e l’esterno sublime del titolo:”Svenimento umbro”, “Veronica Massonica”,”Madrigale a Proserpina”, “Animula Bockliniana”, “L’oscuro grembo del Tumulo”, “Retablo di chi è passato prima di me (con versi di Raffaele Carrieri)”.
Il grottesco dell’opera richiede il sublime del titolo, sublimazione anche della sua difficoltà di comunicare la propria fertile inattualità. In tal modo la titolazione diventa una ulteriore operazione culturale dell’artista che mette in vetrina le proprie immagini mediante l’offerta moderna di un cartellino rassicurante e valorizzato da offerte lessicali come “madrigale a un dolce usignolo” oppure “l’altura del mondo appena nato”.
Ecco farsi largo la coscienza fine secolo di Maria Cristina Crespo che per dare ospitalità alle figure del proprio immaginario e protezione al grottesco delle sue figure costruisce intorno all’opera un perimetro letterario che vaporizza ogni difficoltà e rende accessibile l’opera sconfiggendo la disattenzione del corpo sociale.

Achille Bonito Oliva